Camillo De Marco
Se c’è un tema che unifica i film di Ferzan Ozpetek è quello della «perdita». A volte come negazione (fosse anche della propria identità), a volte come mancanza (di una persona o di un sentimento), altre volte come confronto con il vuoto che quella perdita provoca (scoprendo magari che anche i «fantasmi» fanno parte della vita). Il che avvolge i suoi film in un abbraccio struggente e malinconico, da cui però lo stesso regista sembra far di tutto per divincolarsi con momenti sorprendentemente «scorretti» e inaspettati. Così da spingere lo spettatore lungo percorsi mai davvero prevedibili. Così è anche è per questo «Napoli velata», dove Adriana (Giovanna Mezzogiorno, probabilmente nella sua prova più convincente) è un anatomo-patologo che ha fatto della freddezza e della razionalità le sue armi professionali — è responsabile delle autopsie nel suo ospedale — e che deve confrontarsi prima con l’uragano delle sue emozioni e poi con la sofferenza per la loro perdita, mentre il film sembra imboccare strade contraddittorie e piste ingannevoli, tutte però necessarie per coinvolgere lo spettatore in quell’atmosfera ambiguamente ipnotica che trova la sua linfa vitale (e la sua spiegazione) nelle complicate stratificazioni dell’anima napoletana. E così il film da una parte scava nel mistero dei sentimenti di Adriana e dall’altra incrocia i riti della città (la messa in scena della «figliata», la «tombola vajassa» e l’interpretazione della smorfia, il fascino ambiguo di certe opere d’arte come il Cristo velato di Sanmartino) per arrivare a capire il mistero su cui è costruita la storia, che Ozpetek ha scritto con Gianni Romoli e Valia Santella. E che come nella primissima inquadratura — una scala ovoidale che ipnotizza e insieme disorienta per il modo in cui è ripresa — sembra offrire l’evidenza della sua bellezza mentre confonde con il fascino della sua ambiguità.
In «Napoli velata» tutto si consuma molto in fretta. A un ricevimento privato, Adriana resta conquistata dal misterioso Andrea (Alessandro Borghi) con cui passa un’esaltante (e torrida) notte d’amore. Dovrebbero incontrarsi di nuovo l’indomani, al Museo archeologico, dove però la donna l’aspetta invano, dando il la a un giallo che scava più nell’anima che nelle indagini poliziesche, nonostante la presenza centrale di un investigatore della polizia (Biagio Forestieri). Siccome a un certo punto entra in campo anche un gemello del defunto (sempre Borghi) verrebbe da pensare a Hitchcock, anche se Ozpetek preferisce il richiamo al Rossellini di Viaggio in Italia, che cita in alcune scene e non solo nel palazzo Sanchez de Leon dove abita la zia (Anna Bonaiuto). Forse però sono giusti entrambi i rimandi cinefili, proprio perché al melodramma di un amore appassionatamente afferrato e drammaticamente perso si intreccia il mistero di un cadavere sfigurato e di un’omertà insinuante, dove prendono forma personaggi che non vogliono uscire da una loro indeterminata ambiguità, come il «confidente» Pasquale (Peppe Barra) o l’amica Catena (Luisa Ranieri) o le inquietanti antiquarie Ludovica (Lina Sastri) e Valeria (Isabella Ferrari). Tutti personaggi, come la zia che si scoprirà nascondere più di un segreto, che Ozpetek usa in controtendenza, appiccicosi quando te li aspetteresti schietti, ingannevoli quando dovrebbero essere trasparenti, vendicativi quando li vorresti consolatori.
Dopo un inizio che ti trascina dentro la storia come in un vortice, molto per merito della Mezzogiorno il cui personaggio si apre a molte interpretazioni senza essere mai banalmente ambiguo, il film rischia di perdere un po’ della sua forza quando la sceneggiatura dà l’impressione di voler rimandare il confronto col giallo. Per ritrovare verso la fine la tensione che aveva fatto provare all’inizio e tornare a interrogare sui misteri dell’animo umano e sulla fatica di affrontare certe perdite. Peccati veniali, comunque, che confermano Ozpetek come uno dei pochi registi italiani che sa tenersi lontano dai compitini ben fatti (e asettici) per cercare ogni volta di sfidare lo spettatore a seguirlo sul terreno inaspettato e non rassicurante della sfida alle convenzioni.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della sierra